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E’ facoltativa l’impugnazione delle intimazioni di pagamento.

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In tema di contenzioso tributario l’opposizione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato nell’elenco di cui all’art.19 del D.lgs.n°546/1992 che tuttavia è  in grado di incidere sulla sfera patrimoniale del soggetto destinatario poiché  manifestazione di una pretesa tributaria ben definita, può dirsi facoltativa e non obbligatoria da parte del contribuente, costituendo una estensione della tutela; per cui l’eventuale mancata opposizione della intimazione di pagamento, non determina la definitività della pretesa tributaria, né  tanto meno preclude la successiva impugnazione di uno degli atti tipici previsti espressamente dall’art.19 del D.lgs.n°546/1992. E’ quanto ha disposto la Suprema Corte di Cassazione – Sezione Tributaria in concomitanza della Sentenza n°2616 dell’ 11 febbraio 2015. Si tratta, di un orientamento assunto  dalla giurisprudenza di legittimità che per certi versi riconferma quello assunto in altre pronunce precedenti disposte dalla stessa Cassazione.

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  • Il fatto.

La casistica che ci occupa rinviene dalla premessa in fatto palesata dai Giudici di Cassazione nella pronuncia sopra richiamata.  In particolare, un contribuente aveva formalizzato la propria opposizione ex art.18 del D.lgs.n°546/1992 davanti al giudice tributario di primo grado avverso una cartella di pagamento emessa e notificata dal Concessionario nazionale Equitalia SPA scaturita dalla preventiva iscrizione  a ruolo effettuata dall’ente impositore. Il giudice tributario di prime cure definiva il giudizio di primo grado rigettando il ricorso introduttivo del contribuente, ritenendo nel caso di specie inammissibili i motivi di doglianza palesati dallo stesso nel proprio atto di parte, ritenendo il Collegio tributario inammissibili i motivi relativi agli atti d’intimazione di pagamento prodromici, regolarmente notificati al contribuente e non opposti.

Facendo seguito al deposito di rituale atto di appello da parte del contribuente, il Giudice di secondo grado riteneva meritevole di accoglimento i motivi di doglianza palesati dall’appellante in sede di gravame. In particolare, il giudice tributario di secondo grado dichiarava illegittima la cartella di pagamento impugnata ritenendo non autonomamente impugnabili le intimazioni di pagamento.

Faceva seguito nei termini di legge il rituale deposito di ricorso per Cassazione ex art.360 e ss. c.p.c in concomitanza del quale sia il Ministero delle Finanze sia lo stesso Ufficio Territoriale facente capo all’Agenzia delle Entrate chiedevano la cassazione della sentenza di appello.

Tra i motivi di doglianza proposti dai ricorrenti in sede di legittimità, il Ministero eccepiva la violazione e/o falsa applicazione dell’art.19, comma 1 del D.lgs.n°546/1992 in relazione all’art.360, comma 1 n°3 c.p.c. laddove l’opposta sentenza aveva precluso la possibilità di impugnazione autonoma degli atti di intimazione di pagamento i quali sarebbero al contrario espressivi di una pretesa tributaria già certa e cristallizzata, facendone erroneamente conseguire l’ammissibilità della deduzione dei vizi addotti dalla contribuente come afferenti ai ridetti atti in sede di opposizione alla cartella di pagamento notificata ex post.

 

Sulla impugnabilità’ dell’avviso di pagamento. Valenza estensiva dell’elenco di cui all’art.19, comma 1 del D.lgs.n°546/1992. Ammissibilità dell’azione giudiziale. Principi generali.

Preliminarmente, prim’ancora di passare ad analizzare l’orientamento assunto dai Giudici di Palazzaccio sulla questione specifica di cui in premessa, al fine di fugare ogni  dubbio in ordine alla valenza estensiva del lungo elenco di cui al richiamare art.19, comma 1 del D.lgs.n°546/1992 rileva senz’altro evidenziare, ove fosse ancora in discussione, che in tema di contenzioso tributario sono qualificabili come veri e propri  avvisi di accertamento o di liquidazione, e, pertanto, legittimamente impugnabili, ai sensi del ridetto art.19 del D.lgs.n°546/1992 tutti quegli  atti  con cui  l’Amministrazione finanziaria  comunica al contribuente  una pretesa  tributaria ormai definita ancorché  tale comunicazione  non si  concluda con una formale intimazione di pagamento sorretta dalla prospettazione ,in termini brevi, dell’attività esecutiva, bensì, con un invito bonario a versare quanto dovuto, non assumendo, pertanto, alcun rilievo la mancanza della formale dizione “avviso di accertamento” o “avviso di liquidazione” o, ancora,  la mancata indicazione del termine o delle forme da osservare per l’impugnazione o della Commissione tributaria competente.

In tal senso, è rilevabile autorevole giurisprudenza di Cassazione[1]  tra cui ex plurimis degna di nota è sicuramente la pronuncia N°16293 del 24/07/2007 in concomitanza della quale la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite  enucleando il principio generale di cui sopra ha disposto espressamente che nel caso in cui un atto formalmente non impugnabile ma sostanzialmente impositivo, difetti degli adeguati elementi formali,ad esempio, non contenga la dizione avviso di liquidazione o avviso di pagamento, ovvero, l’indicazione del termine entro il quale il ricorso deve essere proposto alla Commissione Tributaria competente, si può parlare di un vizio proprio dell’atto o della possibile inidoneità dello stesso a fare decorrere i termini di cui all’art.21 del D.lgs.n°546/1992; vizi formali che in quanto tali, non pregiudicano l’impugnabilità dell’atto stesso. Con riferimento, ad esempio, all’avviso di pagamento emesso ed inviato dall’ente locale o anche dall’Amministrazione finanziaria,  lo stesso, da un punto di vista meramente formale,contiene tutti gli elementi essenziali per potere essere considerato un vero e proprio “avviso di liquidazione”. Generalmente trattasi di un atto ch riporta per tabulas gli estremi e l’ubicazione dell’immobile a cui è riconducibile la pretesa tributaria in oggetto, contiene le modalità di calcolo della tassa o del tributo/contributo nonché la calendarizzazione in dettaglio dei pagamenti configurando esso una vera e propria “liquidazione” della tassa dovuta relativamente all’anno d’imposta considerato, che in quanto tale, è già in grado di incidere sulla sfera patrimoniale del contribuente.

Pertanto, è di tutta evidenza che si tratta di un atto che contiene in sé già tutti i fattori essenziali e sufficienti da cui è possibile dedurre che ci si trova a tutti gli effetti innanzi ad  una vera e propria “intimazione  di pagamento” avente ad oggetto una pretesa impositiva già definita e ben circoscritta dall’Ente impositore.

Quello appena richiamato è un assunto che toglie sicuramente ogni dubbio sulla effettiva “natura impositiva” dell’atto in questione pur non essendo espressamente indicato nel lungo elenco di cui al richiamato art.19, comma 1 del D.lgs.n°546/1992., ponendolo, senza alcun dubbio, nella casistica richiamata dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite  nella  Sentenza n°16293 del 24/07/2007 sopra evidenziata.

Né, può forviare da tale conclusione e costituire, pertanto, un ostacolo, la mancata indicazione espressa dell’avviso di pagamento di cui si tratta nell’elenco di cui all’art.19 del D.lgs.n°546/1992.

In merito, è pacifico ormai per giurisprudenza consolidata della stessa Corte di Cassazione[2] che l’elencazione contenuta nell’art.19 del ridetto Decreto deve essere interpretata in senso estensivo, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (art.24 e 53 Cost.) sia in conseguenza dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la Legge n°448/2001 (legge Finanziaria 2002).

Con la conseguenza che deve ritenersi pertanto “impugnabile” ogni atto che risulti sostanzialmente “idoneo” a portare a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria già cristallizzata e ben definita sia relativamente all’an sia in considerazione del quantum debeatur; infatti, sorge in capo al contribuente destinatario dell’atto, già al momento della ricezione dello stesso, l’interesse ex art.100 c.p.c.[3] a chiarire con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa, e quindi,  invocare necessariamente una imprescindibile tutela giurisdizionale e, comunque, di controllo sulla legittimità sostanziale della pretesa tributaria esternata dall’ente impositore o dall’Amministrazione finanziaria in genere. Tutto ciò, se vogliamo, al fine di prevenire la notifica di successivi atti esecutivi  gravati di sanzioni ed interessi a carico del destinatario.

In tal senso si è espressa, da ultimo, sempre la Corte di Cassazione in concomitanza della Sentenza n°17202/2009 in concomitanza della quale i Giudici di Palazzaccio, ribadendo ulteriormente l’orientamento giurisprudenziale già palesato in altre pronunce hanno esternato il principio generale già recepito dalla stessa giurisprudenza di merito; ovvero, la “non tassatività” dell’elencazione degli atti impugnabili di cui all’art.19 del D.lgs.n°546/1992, disponendo la Suprema Corte che la stessa deve essere interpretata “in chiave estensiva[4]. Tale orientamento è stato ribadito ulteriormente dalla stessa Corte di Cassazione in un recente arresto giurisprudenziale[5].

L’interpretazione in chiave estensiva del ridetto art.19 del D.lgs.n°546/1992 consente infatti di qualificare come impugnabile anche un atto atipico quale può essere un avviso di liquidazione, ai fini IVA (ex art.54-bis del D.P.R. n°633/1972) o un’intimazione di pagamento, come nel caso di cui si tratta.

Ne deriva, quindi, che per atto impugnabile dinanzi al Giudice tributario si deve intendere un atto idoneo ex se ad incidere in concreto sulla sfera patrimoniale del contribuente nei cui confronti l’Amministrazione finanziaria o l’Ente locale impositore fanno valere la propria pretesa tributaria già definita ab origine. Un’ulteriore riprova in tal senso, ove ce ne fosse bisogno, è rappresentata dalla dicitura riportata in calce all’atto opposto. In particolare, l’avviso di pagamento emesso dall’ente locale o dalla stessa Amministrazione finanziaria, dispone generalmente tale dicitura quale deterrente per il contribuente ad effettuare il pagamento nei termini indicati: “in caso di mancato pagamento del tributo alle scadenze stabilite, si applicherà la sanzione prevista dall’art.13 del D.lgs.n°13 del D.lgs.n°471/1997 pari al 30% del tributo, e si procederà ad esecuzione forzata”. Pertanto, per le ragioni  sopra esposte ci troviamo innanzi ad un atto che per quanto denominato “Avviso di Pagamento” o “intimazione di pagamento” rientra sicuramente nella casistica contemplata dalla Suprema Corte di Cassazione,  trattandosi di un atto impositivo avente ad oggetto una pretesa tributaria che può dirsi certa, circoscritta e ben definita;

 

-La Sentenza n°2616 dell11/02/2015.

Facendo espresso richiamo alla sentenza di cui in premessa depositata dai Giudici di Palazzaccio, non ci si può esimere, a parere di chi scrive, dall’evidenziare la circostanza secondo cui la Corte di Cassazione in concomitanza della pronuncia in commento ha riaffermato il principio non certo nuovo e rivoluzionario secondo cui l’impugnabilità “facoltativa” degli atti non espressamente indicati nell’elenco di cui all’art.19, comma 1 del D.lgs.n°546/1992, proprio in considerazione delle motivazioni sopra richiamate, non preclude, comunque, agli stessi, la possibilità  di esprimere compiutamente una pretesa impositiva certa e ben definita senza che la stessa debba essere necessariamente espressa mediante la notifica di uno degli atti autonomamente impugnabili.

Tale discrezionalità dell’opposizione contrapposta ad un asserito onere (che consiste nella opposizione degli atti tipici autonomamente impugnabili, pena la cristallizzazione della pretesa impositiva intimata), sembra il frutto di un equivoco sul piano sistematico che non possono esimerci da alcune riflessioni nella prospettiva del suo definitivo superamento, de jure condendo, in seguito all’auspicata approvazione del codice del processo tributario.

In particolare, il giudicato in commento così come  depositato dai Giudici di Palazzaccio ha disposto letteralmente che: “la mancata impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato nell’art.19 non determina in ogni caso la non impugnabilità ( e cioè la cristallizzazione) di quella pretesa,  successivamente reiterata in uno degli atti tipici previsti dallo stesso art.19”.

Secondo tale orientamento giurisprudenziale qualora l’atto in questione non è espressamente indicato nel lungo elenco di cui all’art.19 comma 1 del D.lgs.n°546/1992, suscettibile come già più volte evidenziato, di interpretazione estensiva, ma pur sempre rigorosa, non per questo esso non può essere impugnato innanzi al giudice tributario.

La riflessione cui autorevole dottrina[6] ci induce sull’argomento è che la differenza sarebbe particolarmente rilevante là dove, se l’atto è compreso nell’elenco in questione sussisterebbe un “onere di impugnazione a pena di cristallizzazione della pretesa” in esso contenuta; mentre nella situazione opposta vi sarebbe una mera facoltà di adire il giudice tributario, “il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento”[7].

Con riferimento a tale assunto rileva senz’altro chiarire che il contribuente in qualità destinatario principale di una pretesa impositiva deve essere considerato titolare più che di una mera facoltà piuttosto di un “potere” di impugnazione contro gli atti  impositivi attraverso i quali l’Amministrazione finanziaria estrinseca la propria pretesa erariale. E, nel fare questo  il contribuente stesso ha la possibilità di attivarsi attraverso una serie di soluzioni diverse tra loro che comunque possono portare tutte allo stesso risultato; ossi, la definizione della questione impositiva.

In ogni caso, è preclusa allo stesso contribuente la possibilità di un azione di accertamento negativa del tributo eventualmente dovuto, laddove, l’azione giudiziale dallo stesso attivata non è ammessa nel processo tributario, in considerazione dell’attuale assetto ordinamentale.

Pertanto, la decisione del contribuente in ordine alla impugnazione  o meno dell’atto impositivo (autonomamente impugnabile ex art.19 D.lgs.n°546/1992) può essere ricondotto nella complessiva ed equilibrata ponderazione della situazione soggettiva in cui lo stesso versa al momento del ricevimento dell’atto; situazione soggettiva che, in quanto tale, solo lui conosce bene, in considerazione della quale si attiverà attraverso le soluzioni possibili che  l’ente impositore e la normativa vigente gli consente al fine ultimo di definire la propria situazione impositiva.

Avv. Giuseppe Durante

 

[1] Cfr.: Cass., Sent. n°18008 del 09/08/2006; Cass. Sent. 16428/2007.

[2] Cfr.: Cass. Sent. n°21045/2007; Cass. Sent. n°27385/2008.

[3] Come noto, il citato art.100 c.p.c., intitolato «Interesse ad agire», prevede che « Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse».

[4] In tema di atti impugnabili nel processo tributario di cui all’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, deve ritenersi che l’elencazione degli “atti impugnabili”, contenuta nel predetto art. 19, pur dovendosi considerare tassativa, vada interpretata in senso estensivo, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della pubblica Amministrazione, che in conseguenza dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge 28 dicembre 2001, n. 448, con la conseguente facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, con l’esplicitazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è “naturaliter” preordinata, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal citato art. 19.

[5] Cfr.: Cass. civ., Sez.V, sent. n°15029 del 17/07/2015.

[6] Cfr.: A. Comelli, La discutibile impugnazione facoltativa degli atti d’intimazione di pagamento, in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria n°6/2015.

[7] Cfr.: Cass. civ., Sez.V, sent. n°17010 del 05/10/2012, ove è stato sancito: « In tema di contenzioso tributario, l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ha natura tassativa, ma non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l’Amministrazione porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche, siccome è possibile un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge 28 dicembre 2001, n. 448. Ne consegue che il contribuente ha la facoltà, non l’onere di impugnare il diniego del Direttore Regionale delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive ex art. 37 bis, comma 8, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, atteso che lo stesso non è atto rientrante nelle tipologie elencate dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, ma provvedimento con cui l’Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario.».